Amici per i geni – L. Pierantoni

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La relazione tra cane e uomo ha origini antiche.

Nonostante ricercatori e archeologi continuino a discutere sulla data di nascita del cane, sembra che il processo che ha portato il lupo grigio a trasformarsi nel nostro cane domestico sia avvenuto in diverse parti del mondo, in una epoca compresa tra i 14.000 e i 30.000 anni fa.

Secondo alcuni autori è stato il lupo stesso ad “auto-selezionarsi” per essere sempre meno preoccupato dall’uomo, ma in una fase successiva è possibile che le donne abbiano giocato un ruolo importante nel sentire l’impulso di prendersi cura dei cuccioli di lupo (Meg Daley Olmert, 2009).

Secondo la studiosa M. D. Olmert, il legame uomo-animale ha una base biologica legata all’ossitocina, un ormone che sopprime la risposta del timore e abbassa la pressione sanguigna, la frequenza cardiaca e gli ormoni dello stress. Conosciuto anche come “chimica di coccole”, l’ossitocina è prodotta nel cervello per favorire l’adesione tra madri e piccoli e favorendo il legame di attaccamento.

 

Oggi i cani occupano un posto privilegiato nelle nostre società e, per quanto la relazione tra l’uomo ed il cane possa ampiamente variare a seconda della cultura o delle specifiche caratteristiche della famiglia e del cane stesso, è indubbio che si tratti, in ogni caso, di una relazione potente e in qualche modo unica.

Molti cani vivono con noi in quanto ancor legati ad un fine utilitaristico che certamente è stato il primo motore della selezione artificiale operata dall’uomo; sono pastori, fanno la guardia, sono cacciatori.

Altri cani invece, forse la maggior parte, vivono con noi con l’unico scopo di “fare compagnia” e di “dare e ricevere amore”.

 

Ma perché amiamo gli animali?

Si chiama Biofilia (Wilson, 1984) ed è definita come amore per la vita, tendenza innata a concentrare la nostra attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le ricorda e, in alcune circostanze, ad affiliarvisi emotivamente.

 

Secondo Wilson, la biofilia è il frutto di una coevoluzione genetica e culturale

È la tendenza delle persone a cercare rapporti con il mondo naturale: la nostra ricerca del verde, degli alberi e delle piante, il nostro amore per gli animali.

Secondo Wilson la biofilia, questo amore per le cose viventi, ha radici evolutive nell’uomo: i nostri antenati che prestavano attenzione alla natura avevano maggiori possibilità di sopravvivere e quindi di riprodursi e così, i geni “dell’amore per la natura” sono stati trasmessi alle generazioni successive.

 

I nostri geni forniscono l’impalcatura su cui le nostre esperienze di vita modellano il nostro comportamento da adulti. Quello che facciamo, il modo in cui ci comportiamo è dato da un continuo e complesso intreccio tra fattori genetici e aspetti appresi.

E così, l’amore per gli animali, l’interesse e l’attenzione verso di essi, la conoscenza dei processi naturali sono stati un cardine della nostra evoluzione e sono presenti, sebbene in maniera varia, in gran parte delle culture umane permettendo ancora oggi, la nostra stessa sopravvivenza.

Abbiamo quindi una base genetica all’amore, o quanto meno all’attenzione, verso gli animali ma è ovvio che molti altri fattori guidino il nostro desiderio di condividere la nostra vita con loro.

 

Oltre alla ricerca di Olmert, molte altre ricerche stanno oggi dimostrando il ruolo che l’ossitocina svolge nella relazione uomo cane.

L’ ormone, per esempio, aumenta nel cane così come nella persona dopo anche solo l’essersi guardati a vicenda.

 

I cani ci forniscono supporto e compagnia, sono in grado come riportano le ultime ricerche, di comprendere i nostri stati di animo, sono empatici e sensibili.

Noi ci rapportiamo a loro come fossero persone, giochiamo con loro, trascorriamo tempo insieme, a volte raccontiamo loro le nostre giornate.

Inoltre ci capiscono e noi capiamo loro, rispondono al linguaggio del nostro corpo con una sensibilità maggiore a quella dei primati che sono i nostri cugini più prossimi e anche noi abbiamo sviluppato una indubbia capacità a comprendere le loro emozioni e, quasi sempre, a non rimanerne indifferenti.

Infine ci sembra che i cani siano giovani per sempre, sono teneri, hanno gli occhi grandi e rotondi, giocano e sono allegri.

La pedomorfosi, vale a dire il mantenimento delle caratteristiche giovanili in un adulto, è un segno distintivo degli animali domestici.

 

 

E i cani, perché ci amano?

Le ricerche hanno dimostrato che i cani ci vogliono bene, che rispondono con emozioni positive alla nostra voce o anche al nostro odore, che ci cercano quando hanno bisogno di aiuto e protezione.

Siamo naturalmente la loro fonte di sostentamento e la loro sopravvivenza è spesso facilitata dalla convivenza con noi ma è evidente che qualcosa di molto più profondo li leghi a noi, che un semplice fine utilitaristico.

Negli ultimi anni si è assistito ad un notevole aumento delle ricerche sul DNA del cane e sulla correlazione tra alcuni tratti fisici o anche comportamentali a specifici geni.

 

Alcuni anni fa, Monique Udell, studiosa dell’Oregon State University di Corvallis e il genetista dell’università di Princeton Bridgett vonHoldt hanno condotto insieme degli studi indirizzati a collegare una caratteristica comportamentale considerata necessaria al processo di addomesticamento del cane e definita “ipersocialità” con la genetica sottostante.

Il punto era ricercare la genetica sottostante l’evidente tendenza dei cani ad interagire ed a relazionarsi con l’uomo.

Come già precedentemente dimostrato i ricercatori, comparando il comportamento di cani e lupi allevati a mano, hanno confermato che i cani sono altamente più socievoli dei lupi.

In medicina umana esiste una sindrome (Williams-Beuren), si tratta di una patologia dello sviluppo che porta il soggetto affetto a sviluppare, tra altri sintomi, una “ipersocialità”, un tratto comportamentale caratterizzato dall’essere particolarmente amichevoli.

La sindrome risulta dalla perdita di una parte del cromosoma 7. VonHoldt si è concentrata su questo tratto del DNA per valutare se, alterazioni in questa regione, potessero essere responsabili, anche nel cane, della sua ipersocialità.

 

Per quanto esistano notevoli variazioni genetiche in ogni persona affetta dalla suddetta malattia così come in ogni cane, l’alterazione di un gene per una proteina chiamata GTF21, che regola l’attività di altri geni, è stata associata ai cani più sociali ed è invece assente nei lupi.

I cani presentano quindi maggiore socievolezza rispetto ai lupi, così come gli uomini sono più socievoli dei primati loro antenati.

Si tratta di uno studio pilota, la ricerca è appena cominciata ma chissà che non porti alla dimostrazione che cani e persone utilizzano gli stessi geni per i comportamenti sociali e forse anche per questo scelgono ogni giorno di condividere le proprie esistenze.

 

 

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